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Recensione del libro: Alessandro Coppola “Apocalypse town. Cronache dalla fine della civilità urbana”, Laterza 2012

Il libro racconta la lunga agonia delle città della cosiddetta Rust Belt americana, (Detroit, Baltimora, Youngstown, Buffalo, Philadelphia, Cleveland e Milwakee, fra le altre), che da un glorioso passato industriale e di espansione urbana in termini di popolazione e di ricchezza, dalla fine degli anni sessanta hanno visto una continua ed estenuante sottrazione di capitali, persone ed attività umane che ne hanno radicalmente mutato l’aspetto e la qualità della vita.
Youngstown era conosciuta come Steel City, capitale nazionale della produzione di acciaio, la “Ruhr d’America”; all’apice del suo sviluppo, nel 1960, contava 168.000 abitanti, che si sono più che dimezzati arrivando agli odierni 73.000, con tendenza al calo in previsione di 54.000 nel 2030.
Detroit, la famosa Motor Town, capitale dell’automobile, ha oggi 900.000 abitanti (4,4 milioni nell’area metropolitana): si tratta di meno della metà della popolazione che la città aveva al suo apice alla fine degli anni cinquanta.
“Gli effetti combinati del cambiamento economico, di quello sociale e delle forme di insediamento umano” nel territorio, hanno reso queste città paradigmi del paesaggio post-urbano che ricordano quello prodotto dalle grandi catastrofi naturali, tante volte raccontate al cinema, ma qui non si tratta di effetti speciali nè di cambiamenti repentini, ma di un lento declino e di un inesorabile impoverimento quotidiano.
Dalle cronache di Coppola emergono i fattori principali che possono ferire a morte le città: de-industrializzazione, sub-urbanizzazione, segregazione sociale. La progressiva erosione del tessuto produttivo industriale, dovuta alla globalizzazione, la competizione internazionale sui mercati dell’auto e degli elettrodomestici e i cambiamenti tecnologici non hanno prodotto solo l’erosione dell’occupazione manifatturiera (nel solo decennio tra il 1970 e il 1980 a Detroit si sono persi 89000 posti di lavoro) , con lo svuotamento di fabbriche e officine, ma anche il costante sgretolamento del potenziale scientifico e tecnologico, ed il conseguente abbandono delle proprie sedi da parte delle grandi corporation terziarie. Il suburbio come forma prevalente di occupazione del territorio abitato ha contribuito a drenare abitanti, attività economiche e gettito fiscale dalla inner city alle aree suburbane. Il declino demografico ha portato alla cristallizzazione delle classi sociali in aree ben precise, con i bianchi e le classi agiate in volo verso il suburbio e le classi povere e gli afroamericani provenienti anche dagli stati del sud a riempire le inner city e i quartieri fino ad allora completamente bianchi, diventati così un hyper-ghetto ossia una forma radicale di esclusione sociale e di segregazione razziale allevata nel grembo urbano dell’America post-urbana.
Il risultato è un intero territorio che cessa di crescere, dove le inner city precipitano in un vortice di impoverimento, non solo dal punto di vista del reddito ma anche da quello dei servizi (con alcune zone escluse dalla rete di vendita della grande distribuzione, tanto da meritarsi  il nome di food desert), e le zone metropolitane non riescono a sollevarsi dalla depressione economica. Le amministrazioni pubbliche, per combattere il degrado dello scenario urbano, si trovano costrette a pianificare la riduzione della città, attraverso la demolizione dei fabbricati, la rilocazione degli abitanti in aree più concentrate e la rinaturalizzazione di alcune parti, come se si combattesse una cancrena con l’ amputazione di un arto ormai pregiudicato.
Dopo avere analizzato le cause del declino e i primi e in gran parte fallimentari interventi e piani di sviluppo (leggi speculazioni immobiliari) di derivazione teorica e ascendenza liberista, negli anni ottanta e novanta, il libro illustra quali sono le più recenti risposte delle popolazioni, delle amministrazioni locali e delle istituzioni a città con sempre meno abitanti, meno posti di lavoro, meno servizi e con sempre più immobili (produttivi, residenziali, terziario) abbandonati e spazi inutilizzati in via di rinaturalizzazione.
“Nella Rust Belt molte delle pratiche che ora fanno parte delle famiglie della sostenibilità ambientale e delle cultura della decrescita sono nate prima che altrove”, grazie a decenni di sperimentazioni, tentativi ed errori che attivisti ostinati hanno portato avanti fra le macerie della città. Molti sono i rimandi tra il dibattito sullo smart-shrinkage  e le tendenze della cosiddetta “decrescita felice” o delle “transition towns”.
Il tema, delle fattorie urbane, dei community e school gardens non è nuovo nella storia americana. Durante la crisi post- 1929, l’amministrazione Roosevelt inizia a finanziare progetti di gardening in tutto il paese, sia per l’educazione dei giovani studenti che per la produzione di cibo da distribuire alle famiglie indigenti. Durante la seconda guerra mondiale, i victory garden soddisfacevano il 40% del fabbisogno di frutta e verdura del paese. Negli anni settanta, complice la neonata cultura ambientalista, le città che cominciavano a impoverirsi dopo l’apogeo degli anni cinquanta-sessanta, tornavano a ruralizzarsi. L’agricoltura era destinata a tornare in città spinta dalle promesse mancate del capitalismo o dalla riorganizzzazione/ridislocazione produttiva globale, “aprendo spazi imprevisti alla riconciliazione fra la produzione e il consumo di cibo”.
Ma perché oggi questo ritorno dell’agricoltura non deve essere letto come una fase di quell’eterno movimento a fisarmonica dettato dal saliscendi dei valori immobiliari o dall’ennesima bolla speculativa? Perché a  Detroit, ma non solo, nella Rust Belt, “molti abitanti di un’America che non ti aspetti cominciano a credere che trovarsi ai margini dei grandi flussi della economia globale non sia il problema da risolvere, ma la grande occasione da non sprecare”.
Il movimento contemporaneo delle urban farms nasce dalla netta contrapposizione con l’ideologia dominante del mercato agroalimentare sovvenzionato e basato su monocolture e da metodi di coltivazione basati sull’uso dei derivati del petrolio, su diserbanti, fertilizzanti e pesticidi artificiali. L’impianto ideologico e metodologico è fondato sul locavorismo, ossia sulla consapevolezza che in una economia verde post-carbon serva  sempre più occupazione nell’agricoltura, per accorciare la catena alimentare e far rimanere più valore e produzione nel territorio, per valorizzare e responsabilizzare socialmente nei confronti dei consumatori le imprese insediate nel territorio che si trovano a servire.
L’argomento chiave è quello della sostenibilità ambientale: non solo impiegare meno energia fossile e ridurre le emissioni accorciando le distanze del nostro sistema alimentare, ma anche aumentare le superfici permeabili, promuovere la biodiversità degli ambienti urbani, sistematizzare il riciclo dei rifiuti e la produzione di fertilizzanti naturali; “l’agricoltura urbana propone un metabolismo urbano  più efficiente e sostenibile, modellato sull’esempio dei circuiti chiusi della natura”. L’agricoltura urbana non è semplicemente localizzata in città o nell’area metropolitana ma è  “incorporata nell’ecosistema urbano (…) [in quanto capace di] riutilizzare risorse materiali e umane, prodotti e servizi trovati all’interno  di quell’area urbana per rifornire di risorse materiali e umane, prodotti e servizi quella stessa area urbana”.
L’agricoltura urbana diventa uno strumento imprescindibile di una nuova urbanistica che ha il compito di pianificare il declino, anche incentivando le dismissioni di parti di città obsolete e vuote e riorganizzando reti di servizi sovradimensionate (siano esse strade, fognature, trasporti pubblici). Si tratta di un approccio di medio-lungo periodo da realizzare senza imporre  progetti  traumatici che rischiano di scatenare opposizioni insormontabili, ma accompagnando la vocazione naturale di parti del territorio verso la realizzazione di un modello di “città arcipelago” prefigurato dal piano “Leaner, Greener Detroit” del 2008: una costellazione di “villaggi urbani attorno alla vecchia Downtown collegati fra loro da nuove linee di trasporto pubblico, canali navigabili e piste ciclabili” circondati da aree rinaturalizzate e dedicate all’agricoltura urbana, un disegno netto che non nega la storia dei vecchi quartieri o della città riconosciuta (la Downtown), ma che attraverso il mix di funzioni attività e classi sociali, insieme a vasti programmi di compensazione ecologica, decontaminazione dei suoli e nuove foreste urbane, produzione locale di energia rinnovabile combinate a smart-grid,impiego sostenibile delle risorse,  compirebbe una scelta strategica di ricostruire economia e società attorno alla nuova vocazione produttiva, in cui la popolazione è insieme produttore e consumatore dei beni, prodotti e servizi prodotti in loco da artigiani ad alta tecnologia  e urban farmers, legata in toto alla green economy.
La città del futuro è da coltivare come una pianta e non da plasmare come un’opera d’arte. La città-arcipelago rappresenta uno scenario di de-urbanizzazione non regressiva e non nostalgica di un passato rurale o di un improbabile ritorno alla natura. Il suo abitante non è un eremita ma un cittadino attivo affinchè la propria città diventi un modello di sostenibilità ambientale e di creatività sociale, “per gettare i semi di una civiltà che faccia del nuovo rapporto con il mondo naturale il migliore pretesto per una diversa relazione fra gli umani”.